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Thursday, April 27, 2006

Osama e Al Zarkawi ci vogliono assediati come Gordon Pascia

di GIANNI RIOTTA
Il 26 gennaio 1885 le forze ribelli del mistico musulmano Muhammad Ahmad al-Mahdi irruppero a Khartoum, in Sudan, travolgendo le difese del generale di Sua Maestà Britannica Gordon Pascia. A Londra, la Regina Vittoria pianse e maledisse, come milioni di sudditi, il premier Gladstone, che non aveva salvato l'intrepido Gordon Pascia, di cui si diceva fosse morto trafitto dalle lance dei dervisci, stoicamente eretto sulle scale del palazzo, o invece che avesse combattuto, revolver scarico e sciabola spezzata finché le orde nemiche non lo squartarono. La sua testa, i capelli imbiancati dall'assedio, fu trofeo dei fondamentalisti. Ascolto le minacce di Osama Bin Laden, «fedeli fate del Sudan il nuovo campo di battaglia contro i crociati», seguo il primo video di Abu Musab Al Zarkawi su Internet, e penso a Gordon Pascia. Il generale Charles George Gordon, le cui truppe in Cina erano chiamate «invincibili», finì beghino e mezzo matto, Lytton Strachey, già nel 1918, lo ricorda esporre la città all'artiglieria del Mahdi, «Dio mi ha creato privo di paura». Gordon poteva ritirarsi, ma aspettò la fine pervaso di razzismo per le armate islamiche. Lo sceicco Bin Laden e il capo guerrigliero giordano in Iraq, Al Zarkawi, vogliono farci fare la fine del generale Gordon Pascia. Ispirare un'isteria politico-religiosa, che renda impossibile ragionare e discutere, costringendo le nostre società, e gli eserciti in Iraq e Afghanistan, in cittadelle assediate come Khartoum 1885. Con l'opinione pubblica scomposta, i generali istrioni, i ministri distratti. Per questo brillano le bombe a Dahab, per questo risuonano i proclami di Osama e Zarkawi. Spesso ho richiamato la vostra attenzione sul tentativo di genocidio in Darfur, la plaga del Sudan occidentale dove, da tre anni, la soldataglia janjaweed sostenuta dal governo centrale tormenta la popolazione locale, con decine di migliaia di morti, stupri e mutilazioni e due milioni e mezzo di profughi. Ne scrivo, come tanti colleghi, voi rispondete con email toccanti, poi torniamo tutti a occuparci del derby Franco Marini contro Giulio Andreotti, compiaciuto, a 87 anni, di tornare a destra, come già nel suo governo 1972. Osama non ha di queste distrazioni. Il suo senso tattico ha la brillantezza dei condottieri antichi, Scipione Africano, Montecuccoli, Eugenio di Savoia. Vede l'Onu paralizzata davanti all'emergenza Darfur. Sa che gli americani sono alle prese con i ribelli di Zarkawi a Bagdad, che devono sbrogliare la mina atomica Iran e che il ministro Rumsfeld è in trincea contro i suoi stessi generali. E allora chiama alle armi in Sudan, dove i janjaweed musulmani massacrano altri musulmani, ma di origine africana e non araba e dunque invisi al regime di Omar Hassan Bashir. Zarkawi, come la propaganda di Salò contro gli americani, invoca «difendiamo l'onore delle nostre donne!», ma i musulmani janjaweed violentano musulmane, sventrano donne incinte musulmane, profanano moschee. Europa, Usa e Onu non hanno coraggio nel curare la piaga Darfur. L'opinione pubblica di casa nostra è stanca di guerre umanitarie. La Cina è pronta a bloccare ogni iniziativa, perché il Sudan è la sua quarta pompa di benzina. I dannati del Darfur restano in balia di Osama Bin Laden e degli sgherri janjaweed . Guardo il ritratto del generale Gordon Pascia dipinto da Lady Julia Abercromby, marziale, tronfio, senza paura, penso alla sua testa issata su una picca da un fanatico e a noi: finiremo per somigliargli, gradassi senza cuore? P.s.: la scorsa settimana ho attribuito al presidente Kennedy la battuta sugli «economisti con un braccio solo». È di Truman, me ne scuso! griotta@corriere.it

The Death of Multiculturalism
By DAVID BROOKS

In 1994 multiculturalism was at its high-water mark, and Richard Bernstein wrote "Dictatorship of Virtue," describing its excesses: the campus speech codes, the forced sensitivity training, the purging of dead white males from curriculums, the people who had their careers ruined by dubious charges of racism, sexism and ethnocentrism.
Then two years later, the liberal writer Michael Tomasky published "Left for Dead," which argued that the progressive movement was being ruined by multicultural identity politics. Democrats have lost the ability to talk to Americans collectively, Tomasky wrote, and seem to be a collection of aggrieved out-groups: feminists, blacks, gays and so on.
At the time, Bernstein and Tomasky were lonely voices on the left, and the multiculturalists struck back. For example, Martin Duberman slammed Tomasky's book in The Nation, and defended multiculturalism:
"The radical redefinitions of gender and sexuality that are under discussion in feminist and queer circles contain a potentially transformative challenge to all 'regimes of the normal.' The work of theorists like Eve Kosofsky Sedgwick, Jeffrey Weeks, Marjorie Garber and Judith Butler represents a deliberate systemic affront to fixed modes of being and patterns of power. They offer brilliant (if not incontrovertible) postulates about such universal matters as the historicity and fluidity of sexual desire, the performative nature of gender, and the multiplicity of impulses, narratives and loyalties that lie within us all."
Duberman insisted that postmodern multicultural theorizing would transform politics, but today his gaseous review reads as if it came from a different era, like an embarrassing glimpse of leisure suits in an old home movie.
That's because over the past few years, multiculturalism has faded away. A different sort of liberalism is taking over the Democratic Party.
Multiculturalism is in decline for a number of reasons. First, the identity groups have ossified. The feminist organizations were hypocritical during the Clinton impeachment scandal, and both fevered and weak during the Roberts and Alito hearings. Meanwhile, the civil rights groups have become stale and uninteresting.
Second, the Democrats have come to understand that they need to pay less attention to minorities and more to the white working class if they ever want to become the majority party again. Third, the intellectual energy on the left is now with the economists. People who write about inequality are more vibrant than people who write about discrimination.
Fourth and most important, 9/11 happened. The attacks aroused feelings of national solidarity, or a longing for national solidarity, that discredited the multiculturalists' tribalism.
Tomasky is now back with an essay in The American Prospect in which he argues that it is time Democrats cohered around a big idea — not diversity, and not individual rights, but the idea of the common good. The Democrats' central themes, Tomasky advises, should be that we're all in this together; we are all part of a larger national project; we all need to make some shared sacrifices and look beyond our narrow self-interest. Tomasky is hoping for a candidate who will ignore the demands of the single-issue groups and argue that all Americans have a stake in reducing economic fragmentation and social division.
Coincidentally, two other liberal writers, John Halpin and Ruy Teixeira, have just finished a long study that comes out in exactly the same place. Surveying mountains of polling data, they conclude that the Democrats' chief problem is that people don't think they stand for anything. Halpin and Teixeira argue that the message voters respond to best is the notion of shared sacrifice for the common good. After years of individualism from right and left, they observe, people are ready for an appeal to citizenship.
Naturally, this approach has weaknesses. Unlike in 1964, most Americans no longer trust government to be the altruistic champion of the common good, even if they wish it could. And while writers and voters talk about the common good, politicians are wired to think about their team. Harry Reid and Chuck Schumer will never ask their people to make sacrifices, but until they do, the higher talk of common good will sound like bilge.
Nonetheless, the decline of multiculturalism and the rebirth of liberal American nationalism is a significant event. Democrats are purging the last vestiges of the New Left and returning to the older civic liberalism of the 1950's and early 1960's.
Goodbye, Jesse Jackson. Goodbye, Gloria Steinem. Hello, Harry Truman.

Wednesday, April 26, 2006

Mistica dei numeri e miopia dell'Occidente

L'attentato a Dahab, nel Sinai, ha fatto riemergere la simmetria degli stereotipi, delle paranoie e dei pregiudizi presente in seno sia al terrorismo islamico globalizzato sia all'Occidente. Quasi si trattasse di robot che rispondono ad automatismi preordinati.Su un fronte, colpisce il fatto che gli ultimi tre attentati terroristici nel Sinai si siano consumati a distanza di 9 mesi l'uno dall'altro: il 7 ottobre 2004 a Taba, il 23 luglio 2005 a Sharm el Sheikh e il 24 aprile 2006 a Dahab. Che in tutti e tre gli attentati ci siano state 3 esplosioni simultanee. Che tutti e tre gli attentati siano stati attuati da terroristi suicidi.Dove l'enfasi riposta nel numero 11 si spiegherebbe con la similitudine alle lettere alif e lam, che in arabo concorrono a comporre la parola «Allah».Sull'altro fronte, colpisce la reazione istintiva e immutabile — quasi si trattasse di un riflesso condizionato — di molti analisti e politici occidentali. Anche in occasione della strage di Dahab hanno reiterato la tradizionale litania. Ad esempio alla trasmissione «Matrix», andata in onda su Canale 5 il 24 aprile, il senatore diessino Nicola Latorre ha detto che il terrorismo non finir? fino a quando non si risolver? il conflitto israelo-palestinese, e che il terrorismo dimostra che la guerra in Iraq ? stata una catastrofe mondiale. Dal canto suo l'ex capo dello Stato, Francesco Cossiga, si ? spinto fino a legittimare il terrorismo sostenendo che ? paragonabile alla nostra resistenza contro il nazifascismo.Ebbene si tratta, su entrambi i fronti, di posizioni ideologiche e preconcette. Perché la verit? ? che il terrorismo non ? la conseguenza, bens? la causa dei mali che affliggono i palestinesi, gli iracheni e il resto del mondo. ? il terrorismo che si frappone a una soluzione pacifica del conflitto arabo-israeliano, finendo per impedire la nascita di uno Stato palestinese pur di non riconoscere il diritto di Israele all'esistenza. Hamas e la Jihad islamica fecero esplodere i primi kamikaze sugli autobus di Gerusalemme e Tel Aviv nell'ottobre 1993 per sabotare il nascente processo negoziale avviato dalla storica stretta di mano tra Rabin e Arafat. E oggi Hamas preferisce ridurre alla fame il popolo palestinese, pur di non accettare gli accordi con Israele sottoscritti da Arafat. Ed ? la mitizzata Intifada la principale causa del tracollo economico dei palestinesi, che da un reddito pro capite di 1.850 dollari nel 1999 sono precipitati a 850 dollari.Cos? come, stando a un'inchiesta del quotidiano Asharq Al Awsat del 21 aprile scorso, la gran parte dei terroristi suicidi palestinesi appartiene al ceto medio o ricco, ha un livello d'istruzione superiore o universitario, e non ha nulla a che fare con la situazione di miseria e disperazione in cui versa la maggioranza dei palestinesi.Per quanto concerne l'Iraq, come si fa a dimenticare che il terrorismo islamico globalizzato aveva espresso il culmine della sua capacit? offensiva ben prima del 20 marzo 2003? E come si fa a non comprendere che, se oggi si abbandonasse militarmente l'Iraq, lo consegneremmo a Bin Laden e a Al Zarqawi? Infine come si fa a elogiare una persona trasformata in robot della morte, che disconosce il diritto alla vita propria e altrui, immaginando che incarnerebbe le aspirazioni di oltre un miliardo di musulmani?A me pi? che il terrorismo, preoccupa questo Occidente che, puntualmente di fronte alla strage, persevera nel nobilitare il terrorismo giustificandolo come reazione a delle nostre colpe, rifiutandosi di comprendere che ha invece una natura aggressiva. Che dimentica troppo rapidamente che l'Occidente stesso ? diventato una roccaforte del terrorismo islamico e una fabbrica di kamikaze. Che, pertanto, la nostra attenzione alla strage di Dahab non deve essere proporzionale al numero delle vittime italiane, ma deve avere un'identica valenza perché si tratta dello stesso nemico che potrebbe colpire anche a casa nostra, cos? come ? gi? successo a Londra, Amsterdam, Madrid e New York.Il terrorismo non ? la conseguenza ma la causa dei mali del mondo arabo ? sbagliato giustificare le stragi quali reazioni a nostre colpe
Magdi Allam

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