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Saturday, May 07, 2005

«L’Iraq come la guerra di SpagnaDa Londra esempio per i progressisti»

Colloquio con Paul Berman: «Per battere Berlusconi la sinistra italiana deve far restare i militari a Nassiriya»
Paul Berman non ha dubbi: «Ieri a Madrid, oggi a Bagdad! La guerra in Iraq è la nostra guerra di Spagna, una sfida per la sinistra democratica in tutto il mondo, chiamata a dare forza ai propri ideali di libertà. Per questo la vittoria di Tony Blair è un messaggio positivo per i progressisti. Calunniato come "criminale di guerra" il tre volte premier laburista inglese sarà vendicato nel giudizio della storia. E la sinistra italiana, se vorrà davvero battere Berlusconi alle elezioni dell’anno venturo, farà bene a imitarlo da vicino. Adesso le spiego perché...». Quando Paul Berman, oscuro redattore della minuscola rivista di sinistra Dissent venne premiato con la MacArthur Fellowship nel 1992, l’invidia portò un giornalista conservatore dell’ American Spectator a lamentare il solito complotto progressista: «C’è solo una possibilità su un milione di ricevere il premio e lui ce l’ha fatta!». Considerata «Borsa di studio per i geni», la MacArthur permette di lavorare senza problemi finanziari a qualunque progetto, senza scadenze né controlli e piena libertà. Una manna per il giovane redattore squattrinato, un po’ collaboratore del settimanale bohémien The Village Voice , un po’ critico teatrale dello storico periodico di sinistra The Nation , quindi al sofisticato New Yorker e al raziocinante The New Republic , in un pellegrinaggio paziente tra le colonne del pensiero politico liberal d’America. L’attacco di Al Qaeda dell’11 settembre 2001 porta Berman a una riflessione raccolta nel saggio «Terrore e liberalismo», tradotto da Einaudi. Partendo dall’opera del filosofo Sayyid Qutb, padre fondatore del pensiero politico fondamentalista, Berman argomenta che non basteranno eserciti e battaglie per vincere la guerra al terrorismo, se l’Occidente non sarà in grado al tempo stesso di mobilitare l’arsenale della ragione e della passione per la libertà, contro l’oppressione wahhabita. A lungo Berman ha incalzato il partito democratico americano, persuaso che solo prendendo la testa della battaglia ideale contro Al Qaeda la sinistra avrebbe vinto Casa Bianca e consenso. Per questo oggi, da Berlino dove si trova per un periodo di studi all’American Academy, Paul Berman plaude alla terza, storica, vittoria di Blair e invita l’«Unione» italiana a seguirne le orme: «La guerra in Iraq non costa vittorie elettorali. Il primo a doverci lasciare le penne era il premier australiano John Howard e ha vinto. Poi toccava a George W. Bush essere sconfitto per l’attacco a Saddam Hussein, e invece avevano ragione i consiglieri di John Kerry che gli ripetevano di schierarsi dalla parte della libertà nel mondo islamico. Adesso è il turno di Blair. Basta rileggere i necrologi scritti nel 2003 e 2004 sulla sua carriera politica, per capire che l’equazione "Bagdad-sconfitta" è sbagliata». Paul Berman mette in guardia «lo stato maggiore della sinistra italiana, Prodi, Fassino, Veltroni, D’Alema, Rutelli» snocciolando i nomi con confidenza rara in uno studioso americano «Attenti alla sindrome Kerry! Tra i giornalisti, nei media, l’ostilità alla guerra è così diffusa che è facile commettere l’errore di cavalcare la passione e crederla più diffusa. Invece il movimento pacifista è in una fase di demoralizzazione, e non lo dico in senso negativo. I ragazzi che, in buona fede, hanno marciato per la pace vedono le elezioni in Iraq, con milioni di cittadini in fila, la primavera araba di Beirut, la battaglia ideale che anima tanti dissidenti, dalla Siria all’Egitto, vedono le bandiere arancione in Ucraina, e vorrebbero sentirsi parte di questa battaglia vincente. Sono però frenati, non vogliono rinunciare agli ideali, ammainare le bandiere arcobaleno della primavera 2003. Bene: la vittoria di Blair in Inghilterra, e una coraggiosa campagna elettorale della vostra sinistra, potrebbero spiegare che demoralizzarsi non è necessario. Come i volontari americani e italiani hanno combattuto in Spagna contro il fascismo spagnolo, dal 1936 al 1939, è necessario capire che a Bagdad la legione straniera del terrore ha come bersaglio la democrazia nel mondo islamico e la tolleranza ovunque. Un uomo e una donna di sinistra sanno come schierarsi tra questi fronti opposti». A George W. Bush, Berman non lesina le critiche, «Ha detto troppe bugie, è stato arrogante, irritante, ha accampato mille pretese per l’attacco a Saddam, invece di dire la sola cosa giusta: dichiariamo guerra in nome della libertà contro il peggiore despota dei tempi moderni, dopo il cambogiano Pol Pot e costruiamo insieme una coalizione. La sinistra ritiene che Bush sia caduto in una trappola a Bagdad, ma attenti che non sia il contrario, che non siano i progressisti a cadere nella trappola delle incertezze di Bush. Perché, se lo chiedano Romano Prodi e i suoi, l’ex presidente Bill Clinton e la senatrice Hillary Rodham Clinton, non hanno mai attaccato Bush sulla guerra? Perché Hillary vuol presentarsi alle elezioni presidenziali del 2008 e sa che l’opinione pubblica non condivide i pregiudizi dei media. Per battere Berlusconi, che con lealtà è stato al fianco di Bush e Blair, la sinistra deve tornare ai tempi d’oro del 1998, quando si riunivano Clinton, Prodi, Schröder, il primo ministro francese Jospin e Blair, mentre Solana fungeva da cervello internazionale. E’ la coalizione, sono gli uomini, con D’Alema vostro premier, capaci di fare guerra a Slobodan Milosevic e rintuzzare i tragici pogrom del Kosovo. Non perdiamo quei valori, restiamo a fianco dell’eroico popolo iracheno, capace del miracolo elezioni». Berman parla con entusiasmo, con passione, non si vergogna di usare formule e appelli che la cinica politica di ogni giorno ignora o irride: «Il vento sta mutando, anche in Francia, anche qui in Germania. Ho firmato su Le Figaro , il quotidiano parigino, un appello con tanti amici francesi, che s’erano battuti contro la guerra ma sperano nell’evoluzione democratica del Libano. E Le Monde , ostile all’attacco a Saddam va riflettendo con onestà: e se la guerra desse frutti positivi? Ecco, in Iraq è stato eletto presidente, un membro di una minoranza etnica, il curdo Talabani. Niente è perfetto nel mondo, ma il suo partito è affiliato all’Internazionale socialista, fiore all’occhiello di tanti governi di sinistra. E allora io chiedo agli amici della sinistra europea: volete lasciare solo un vostro compagno dell’Internazionale? E perché? Basta il dissenso con Bush? Non è ora di andare avanti, guardare al futuro? Io credo di sì!». Il parallelo di Paul Berman tra la guerra di Spagna, George Orwell, Hemingway, Bob Capa, Per chi suona la campana e la battaglia di Bagdad, potrà non convincere tutti. Tra il nazifascismo e il fondamentalismo islamico le differenze sono radicali, come due diverse malattie: la cura, però, potrebbe essere simile, la forza quando necessario e poi una vigorosa campagna di idee. Lo studioso che fu definito «genio» dai suoi connazionali, ha nella voce un senso di ansia, e si appella «alla sinistra europea e italiana» perché «non smarrisca la lezione della terza vittoria di Blair: nel mondo globale, la gente semplice sa riconoscere chi sta dalla parte della libertà e dei valori anche quando l’aria si fa brutta». A Blair, Berman riconosce il coraggio di «non avere ceduto all’opportunismo dei sondaggi. La storia lo assolverà, come sperava invano per sé Castro. Ecco, la sinistra non deve ascoltare i cattivi maestri del risentimento, non deve lasciare a Berlusconi il merito per l’opera delle vostre truppe a Nassiriya, per il sacrificio di sangue che hanno compiuto con la coalizione. Deve rivendicare quello sforzo senza reticenza, con franchezza. Nessuno deve abdicare alle idee di pace del 2003. Ma se la sinistra non saprà presentarsi agli elettori come paladina di libertà, temo che il terzo successo di Tony Blair, che tanti invidiano magari facendo le pulci sui seggi perduti, resterà un miraggio. Ma io sono ottimista: i cittadini ragionano meglio di tanti, presunti, esperti». griotta@corriere.it

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